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Capitolo X: Il Cuore d'Argento





La biblioteca d'Alessandria.

Fantasmi.

Tanti fantasmi che come in una grande processione si dirigevano verso il fondo dell'immenso salone.

Un gruppo di donne con gli occhi azzurri e i capelli biondi, proprio come lei. Tutte portavano al collo un ciondolo come il suo.

Altri uomini con la chiave di Leonardo.

Altri ancora un'altra chiave, simile a quella: la gemella da unire per aprire la Volta Celeste.

Una di quelle donne le sorrise. "Le vostre antenate", disse il Turco, improvvisamente sbucato alle sue spalle.

Uno spiazzo in mezzo  a tutti quegli scaffali.

Ecco dove erano finite tutte quelle ombre!

Raccolte intorno ad un mosaico rappresentante Mitra, identico al disegno su una delle facce della moneta d'oro.

Zenodoto al centro, recitava strane formule di rito.

"Che rito?"

"Per scacciare le corna dell'Increato"

Un gruppo di uomini fece il suo ingresso tirando un toro per le corna.

I ciondoli a forma di cuore si misero a brillare, alcuni di una luce violetta, altri blu. Anche quello di Elettra si illuminò.

Un cavaliere fece il suo ingresso nel mosaico, teneva una lunga spada in mano. Recise di netto la gola del toro. Il sangue ancora caldo imbrattava il pavimento colorato.

"Per capirne il significato dovete solo leggere"
Buio.



***


Il giorno seguente...

Elettra stava sbraitando ordini a destra e a manca: quella sera si sarebbe tenuto un banchetto in maschera. Il tema era 'Il Giardino dell'Eden' e, tenendo fede ad esso, la sala dei ricevimenti si sarebbe trasformata in una lussureggiante foresta. Aveva ordinato ogni genere di pianta e fiore conosciuto e a Lorenzo sarebbe venuto un colpo quando avrebbe scoperto a quanto ammontavano le spese.

Le alte colonne era state ricoperte da lunghi rami d'edera che si arrampicavano su di esse in ampi vortici, vi erano ovunque colorati festoni floreali e vasi contenenti splendide orchidee. Anche le scalinate erano diventate come dei piccoli cespugli verdi.

Nonostante quello non fosse decisamente il momento, non riusciva a non pensare allo strano sogno di quella notte. Non riusciva a spiegarsene il senso: troppi gesti e troppe parole a lei oscuri lo avevano caratterizzato.

Se non avesse avuto quelle incombenze dell'ultimo minuto da sbrigare, in quel momento sarebbe stata a casa a spulciare ogni singolo manoscritto ritrovato nella biblioteca della madre.

Probabilmente avrebbe già avuto in mano la soluzione del mistero.

Sbuffò, tornando a lavorare.

Nemmeno si accorse dell'arrivo di una persona nel salone.

A Giuliano venne da ridere all'istante: aveva appena messo piede nella sala dei ricevimenti, che sentiva già Elettra urlare contro qualche povero servo che di certo aveva avuto la sfortuna di aver messo un fiore girato verso destra e non verso sinistra, come la giovane aveva pensato, guardandosi però bene dal non riferirlo al sottoposto. Che credeva quella ragazza, che un semplice servo sapesse leggerle nel pensiero? Era già un grande risultato che sapesse leggere correttamente una missiva!

Si guardò in giro in cerca del punto esatto in cui si trovasse e la vide armeggiare pericolosamente in bilico sul corrimano della scalinata principale, intenta a combinarne una delle sue. Indossava una gonna, il ché la rendeva ancora meno agile. Se fosse caduta di sotto, si sarebbe di certo rotta l'osso del collo, constatò.

"Stai cercando di ucciderti?", le disse preoccupato appena l'ebbe raggiunta.

"Fabrizio non voleva farlo. Mi ha chiaramente detto di arrangiarmi", gli rispose lei, mentre si sporgeva ancora di più. Stava tentando di attaccare un festone.

"Fabrizio è più furbo di te", ribatté ironico il giovane de Medici tenendole la gonna. Se avesse perso l'equilibrio, magari avrebbe fatto in tempo a prenderla al volo.

Rimase in quella precaria posizione per alcuni secondi e Giuliano si sentì molto sollevato quando alle sue orecchie giunse la parola "fatto". Senza pensarci due volte, la tirò verso di sé, prendendola poi in braccio.

Elettra rise.

"Non dovresti già essere a casa a prepararti?", le chiese mentre la metteva a terra.

"Adesso vado, dovevo solo sbrigare le ultime cose", rispose lei. Gli diede un veloce bacio sulla guancia e cominciò a scendere i gradini di corsa. La gonna alzata per non inciampare nell'orlo.

Arrivata circa a metà però si arrestò, per poi tornare indietro.

"Ci stavamo dimenticando della nostra scommessa", disse una volta di nuovo in cima.

Elettra e Giuliano, in occasione di qualche festa a palazzo che richiedesse un travestimento, adoravano scommettere sui costumi di alcuni invitati. Chi perdeva pagava da bere al vincitore.

"Tu da Eva", disse lui.

Elettra sorrise, ben consapevole che non avrebbe mai indovinato la sua maschera.

"Francesco Pazzi, da cervo o da ratto", ribatté lei.

Il giovane de Medici si mise a ridere. "Fa già il cornuto tutto l'anno! Grazie a sua moglie Allegra passa a stento dal portone del Duomo. Non penso proprio che si vestirà così, ho già la vittoria in pugno!"

"Lucrezia Donati e suo marito, coppia cervo-cerbiatta", continuò Elettra imperterrita, sempre restando sulla linea cornuto-cornificatrice. "E Riario senza costume, con la sua solita divisa. Andata?". Gli tese la mano, per suggellare la loro scommessa.

"Andata", disse Giuliano stringendole la mano. Poi la tirò a sé, baciandole la guancia.


***

Girolamo Riario era stufo di stare nei suoi alloggi e così, dopo pranzo, aveva deciso di fare una passeggiata per esplorare le meraviglie che quel palazzo offriva. Era sfarzoso, forse troppo per i suoi gusti, ma comunque bello.

Doveva ammettere con una punta di invidia che Lorenzo de Medici ci sapeva davvero fare a valorizzare al meglio la propria immagine. Sapeva perfettamente che il Signore di Firenze basava il proprio potere sulla città su un diffusissimo consenso popolare, ma solo in quel momento ne aveva preso davvero coscienza.

Dopo l'ennesima svolta, si ritrovò in cima ad un'ampia scalinata. Sotto di essa si apriva un'enorme sala e a giudicare da tutta la servitù presente e indaffarata, doveva trattarsi del salone dei ricevimenti, dove si sarebbe tenuto il banchetto di quella sera.

Il suo sguardo fu presto catturato da due figure che si trovavano poco più sotto, su di un grande pianerottolo.

La donna era in piedi sul corrimano e sembrava in un equilibrio molto precario mentre l'uomo la teneva goffamente per la gonna. Riconobbe subito Giuliano de Medici e la sua giovane amante.
Dopo poco il de Medici la strattonò più forte, facendola cadere tra le sue braccia. La ragazza rise e la sua risata cristallina riecheggiò nell'ampio spazio del salone.

Dovette constatare che aveva un suono gradevole.

La rimise a terra e poco dopo il volto di lei fu nascosto alla sua vista da quello di lui. Un bacio, forse.

Così, davanti agli occhi di tutti?

Il Conte non riusciva a capire come all'interno di una corte potessero essere permesse certe cose. A Roma le amanti sbucavano nei letti dei potenti solo con il favore delle tenebre e non si facevano mai vedere in pubblico a quel modo. Firenze era una nota città di libertini ma mai si sarebbe aspettato una simile condotta dai suoi signori.

Forse la sua era più che altro gelosia, ma non lo avrebbe mai ammesso. Nemmeno a sé stesso.
Un servitore gli passò affianco, sembrava indaffarato con i preparativi, ma al Conte non importò. Lo bloccò prima che potesse anche solo pensare di sgattaiolare via.

"Ci sarà anche lei alla festa?", gli chiese indicandogliela.

Il servitore rise. "Elettra? Non mancherebbe mai per nulla al mondo", rispose.

Elettra.

Almeno ora sapeva il suo nome.



***

Poco dopo, a casa di Elettra...



Mancavano ancora diverse ore alla festa e finché Leonardo non si fosse deciso ad arrivare per aiutarla per la parte più ad effetto del suo costume, Elettra da sola avrebbe potuto fare ben poco. Così, una volta a casa, pensò bene di fare ciò che le balenava per la mente fino da quella mattina: se il Turco le aveva detto che per capire il significato di quello strano sogno avrebbe solo dovuto leggere, lei lo avrebbe fatto.

Si diresse in quello che in teoria sarebbe dovuto essere il suo studio, ma che in realtà era molto di più: fungeva anche da biblioteca e da salotto. Ogni singola parete libera era stata ricoperta da eleganti scaffali in legno intarsiato traboccanti di libri.

Appena entrati ci si trovava davanti un piccolo salotto con due poltrone, un divano a due posti in broccato e un tavolino letteralmente sommerso di carte e pesanti volumi. Circa a metà della sala, altre due librerie facevano da separé con la zona studio. In quest'ultima, faceva la sua bella figura una grande scrivania formata da una lucentissima lastra d'ambra racchiusa da una ricca cornice in legno scuro. Qua e là il legno era stato ricoperto da lamine dorate per farne risaltare alcuni particolari. Intorno ad essa vi erano altre tre poltrone, due più piccole, per gli ospiti, e una più grande, per la padrona di casa. L'intera sala era molto luminosa grazie a due enormi finestroni che si affacciavano sulla strada.

Elettra andò verso la zona studio.

Aveva fatto mettere lì i libri recuperati dalla biblioteca della madre. Essendo che le librerie erano ormai piene da tempo, tutti quei preziosi manoscritti erano stati appoggiati in ogni possibile spazio libero: i rotoli di pergamena e le tavolette d'argilla erano state sistemate sulle poltrone e alcuni tomi molto spessi erano finiti sulla scrivania, impilati in modo molto precario e minacciando di cadere da un momento all'altro. Ai diari di sua madre era stata riservata una sorte decisamente peggiore: disposti di fianco ad una gamba del tavolo, messi uno sopra all'altro, creando una torre non dissimile da quella pendente di Pisa. Elettra prese quello sulla cima, facendo ondeggiare pericolosamente il tutto. Con il naso immerso tra i pensieri della madre andò verso i divano, dove si sdraiò.

Imprecò quando si accorse di essersi messa sopra ad una preziosa copia del Milione di Marco Polo e con tutta la delicatezza di cui era capace, lo mise a terra.

Si stancò presto di quel diario. Sperava che tra quelle pagine si facesse menzione ai Figli di Mitra, invece non ce n'era neanche l'ombra.

Era delusa.

Lo chiuse di scatto e lo lanciò sulla poltrona. Tornò alla scrivania e la sua attenzione fu catturata da uno spesso volume con la copertina in pelle verde. Era scritto in arabo. Si mise a sfogliarne alcune pagine a caso. Ad un certo punto, si ritrovò su una pagina in cui era raffigurato un ciondolo.

Il suo ciondolo.



***

Ore dopo...

"Elettra, sei qui?"

Leonardo entrò con circospezione in quello che gli era stato detto fosse uno studio, ma che aveva tutta l'aria di essere una versione da ricchi della sua disordinata bottega. Si guardò intorno.

"L'ultima volta che ho messo piede qui, lì c'era un tavolino", disse ironicamente, indicando un cumulo di libri. Forse c'era ancora nascosto sotto.

Non ricevette ancora risposta dall'amica.

"Tutto bene?", si stava preoccupando.

Un urlo confermò la presenza di Elettra nella stanza. "Leonardo vieni qui!", disse a voce troppo alta da oltre il separé.

Quando Da Vinci la raggiunse, notò che aveva la sua stessa espressione di quando gli veniva un'idea. Elettra lo guardava negli occhi, eppure era come persa in qualcosa di superiore e poi aveva quel sorriso...Leonardo adesso capiva perché quando era lui a fare così la gente si spaventasse. In quel momento provava la stessa sensazione.

"Elettra, respira e siediti un attimo per favore", cercò di farla ragionare.

"Non c'è tempo. Guarda!", ribatté lei. Girò il manoscritto in modo che anche Da Vinci, dall'altra parte della scrivania, potesse vedere.

"Ma questo è...". Riconobbe all'istante in quel disegno il ciondolo che Elettra in quel momento portava al collo.

Lei glielo confermò comunque con un cenno del capo.

"E cosa dice di preciso?", le chiese.

"Racconta la sua storia"

Doveva essere un oggetto davvero importante per i Figli di Mitra, constatò Leonardo, altrimenti non sarebbe stato su quel manoscritto. "Elettra è fantastico!", disse stringendola forte a sé. Se prima era solo lei ad avere quell'espressione da pazza, ora erano in due.

La ragazza gli spiegò che secondo quello strano volume il ciondolo poteva essere aperto, eppure lei rimaneva scettica: erano anni che lo aveva con sé e se fosse stato possibile aprirlo, se ne sarebbe di sicuro accorta prima.

Ma bisognava almeno fare un tentativo, Leonardo di quello era assolutamente convito e per l'ora successiva cercò di convincere anche lei.

"Prova", la incitò per la milionesima volta, però stancamente. Ancora poco e forse si sarebbe assopito.

Elettra sbuffò sfilandoselo dal collo. Lo appoggiò malamente sul tavolo, facendo vibrare la bottiglia di liquore e i due bicchieri quasi vuoti poggiati su di esso. "Fai tu", gli disse facendolo scivolare sulla liscia superficie d'ambra.

Mentre Leonardo se lo rigirava tra le mani, studiandolo però con poco entusiasmo, lei riprese la sua lettura in arabo.

Passarono giusto pochi minuti che la ragazza lo chiamò.

L'artista rispose distrattamente voltando appena il capo.

"Passamelo"

La voce di Elettra era estremamente seria, doveva aver senz'altro scoperto qualcosa.

Da Vinci scattò in piedi improvvisante vigile e fece il giro del tavolo, per ritrovarsi di fianco a lei. Le porse il ciondolo tradendo una certa impazienza. La fissò attentamente: non voleva perdersi neanche un suo singolo movimento.

Elettra guardò ciò che aveva in mano con un certo timore prima di seguire le esatte istruzioni del libro. "Sono figlia della terra e del cielo stellato", sussurrò portandosi il ciondolo vicino alle labbra.

Sul subito si sentì sollevata notando che non succedeva assolutamente niente. Quel libro diceva il falso, come da lei affermato fin dall'inizio.

Non poteva essere altrimenti.

E invece si sbagliava.

Sbiancò quando dal piccolo oggetto che teneva in mano provenì un click, come di un meccanismo che si sblocca. Il ciondolo si aprì in due metà: in ognuna delle due parti era presente una cavità coperta da una sottile lamina di vetro e contenente una piccola gemma. Quella di sinistra era blu, quella di destra viola.

"Non è possibile", balbettò.

Lo sguardo di Leonardo invece si spostava continuamente dalla faccia dell'amica, più pallida del solito, a ciò che essa teneva tra le sue mani tremolanti.

Lei glielo passò alla svelta, come se fosse incandescente.

"E' incredibile... è come se riconoscesse le parole...". Leonardo, solitamente loquace, di parole  in quel momento non ne aveva, quello che aveva appena visto gliele aveva fatte dimenticare tutte. "Questo è senza alcun dubbio un diamante", disse indicando la pietra blu, "Sono rarissimi di questo colore", le fece notare. "E questa è un'ametista", aggiunse indicando l'altra.

"Perché sono così importanti per i Figli di Mitra? Leo tu cosa ne pensi?". Elettra era confusa e anche un po' spaventata.

Leonardo non riuscì a risponderle: Maria entrò nella stanza con aria seccata, interrompendo così i loro studi. "Arriverete in ritardo se non vi decidete ad uscire da questa polverosa biblioteca!", li rimproverò, ponendo così fine alle loro ricerche.

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